L’avanguardia dei Laibach, 30 anni dopo lo storico concerto nell’ultimo giorno di guerra
Josip Broz Tito, Winston Churchill, iconografie in stile nazi-fascista, cover dei Foreigner e di Bob Dylan. Non è un manuale sulla seconda guerra mondiale, né un nostalgico omaggio al secolo scorso, ma il concerto dei Laibach al Dom mladih di Sarajevo lo scorso 5 aprile, parte del loro Opus Dei Tour. Un’esperienza mistica e di talento artistico purissimo in uno dei luoghi simbolo della scena rock jugoslava, dove mossero i primi passi gruppi come Bijelo Dugme e Crvena jabuka.

I Laibach sono senz’altro uno dei gruppi più famosi e controversi di quella scena prospera ed eterogenea che caratterizzò la Jugoslavia dalla fine degli anni ’70 fino alla dissoluzione del Paese. Nati nel 1980 in Slovenia, adottarono fin da subito uno stile e un look sui generis, fatto di uniformi militari e simbologie che rimandano in modo poco velato al Nazismo. Laibach, del resto, è il nome di Lubiana in tedesco. Non per questo furono censurati più volte, fin dalle primissime esibizioni. Oltre che nello stile e nelle provocazioni, i Laibach si distinsero fin da subito musicalmente. Classificarli in un genere è oltremodo impossibile, e il concerto di sabato 5 aprile l’ha ampiamente dimostrato.
A distanza di 38 anni dall’uscita del loro album in studio Opus Dei, uno dei dischi più celebri della storia del gruppo, i Laibach sono attualmente impegnati in un tour celebrativo nel “Vecchio Continente” – che ha toccato anche Bologna lo scorso 28 febbraio.
I loro live sono un vero e proprio spettacolo: alla musica, fatta di elettronica industrial condita qua e là da sonorità rock , pop e metal, si associano giochi di luce, video e scritte sugli schermi retrostanti. Scinderli è quasi impossibile.
L’esibizione è iniziata con un video raffigurante uno storico discorso del Maresciallo Tito, in cui viene ribadito il legame di “fratellanza e unione” tra le genti jugoslave, applaudito dal pubblico. L’estratto è parte del brano Država (The State), dall’ album omonimo del gruppo pubblicato nel 1985. Il concerto si divide in due parti, più l’encore, e nella prima vengono suonati soltanto brani da album cronologicamente precedenti ad Opus Dei, oltre alle cover di Ballad of a Thin Man e Alle gegen Alle.
Come ad oggi mi era successo solo in occasione del concerto di Roger Waters, c’è stata una vera e propria pausa a metà concerto, una sorta di intervallo calcistico di 15 minuti esatti scanditi da un count-down e dalla parola italiana “intermezzo”. Un’occasione non solo di riposo per la band ma un momento che ha permesso al pubblico di interagire e di fare una pausa bagno tra una birra e l’altra, che male non fa.

Anti-semitism, Brat moj, Alle gegen Alle, Leben-Tod, How the West Was Won, Each Man Kills the Thing He Loves hanno caratterizzato la seconda parte di un concerto che ha toccato probabilmente il punto emotivo più alto durante Transnational, brano in cui la voce femminile di Donna Marina Mårtensson legge uno per uno tutti gli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, intervallati dalla voce dura e robotica di Milan Fras. La cover di Live for Life degli Opus ha trovato spazio tanto nella sua versione in tedesco che in inglese, scatenando la folla. La straordinarietà dei Laibach è passare da un brano come Geburt einer nation a The engine of Survival , fino a The great seal, il cui testo non è altro che il famoso discorso “We shall fight on the beaches” di Winston Churchill.
Dall’inizio alla fine il concerto dei Laibach è intrinseco di messaggi politici in cui il totalitarismo e l’autoritarismo vengono volontariamente esasperati fino a mostrarne le contraddizioni. Ma un loro live è molto più che politica: la musica ti travolge e insieme all’arte concettuale che portano sul palco, riesce a creare un tutt’uno con il pubblico. L’ultimo brano è una recita solista, accompagnata dalle tastiere, di Strange Fruit, preceduta da un’altra cover, quella di I wanna know what love is. Alla fine della canzone, Donna Marina Mårtensson riprende il pubblico davanti a lei, che appare sui maxi schermi del Dom mladih.

La tappa di Sarajevo giunge trent’anni dopo quel 21 novembre 1995, in cui il gruppo sloveno giunse nella città martoriata dalla guerra inconsapevole che proprio con il loro concerto quest’ultima sarebbe finita. Da quel momento il legame sentimentale tra la band e la città è inscalfibile, come ha dimostrato il pienone del Dom mladih. Ivan Novak ha dichiarato al giornale bosniaco Dnevni avaz come
30 anni dopo, è a noi chiaro come non fummo noi a portare energia alla città – fu Sarajevo a trasmetterci la sua energia. Passammo una settimana che non dimenticheremo mai: momenti di risate e sarcasmo, feste surreali nei rifugi, la musica era più forte delle granate.
Il 5 aprile è anche il giorno in cui iniziò l’assedio di Sarajevo nel 1992, mentre il 6 aprile ricorre l’anniversario della liberazione della città dall’occupazione nazi-fascista. In un momento storico come questo, il messaggio politico dei Laibach e le parole di Novak, non possono che fare un certo effetto.